Siamo Carichi : Le 3 canzoni per capire un camionista
E se la cabina di un camion fosse una grande cassa armonica?
Con il suo stile ironico e mai banale, nella serie “Siamo Carichi”, Laura ci racconta spaccati e momenti della sua vita di autista professionista.
In questo articolo, Laura ci parla di di tre canzoni della sua playlist, che dicono tanto di lei e del suo lavoro
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Siamo autisti… oltre il sedile c’è di più! Dovrebbe essere lo slogan del camionista per eccellenza.
In verità slogan lo è stato anche per troppo tempo, in troppi contesti.
Perciò il camionista che odia essere etichettato, nonostante invece sia una delle categorie più raggruppate in luoghi comuni, ha deciso di dare uno sprazzo di originalità, ad una cosa che originale lo è ben poco: all’apparenza.
Inizia così prima con le personalizzazioni dei mezzi, vani tentativi di distinguersi tra la massa informe di carrozzerie ingombranti e dalle forme poco sinuose, poi degli impianti stereo per cercare di far sentire la propria voce, visto che con l’appariscenza non c’è riuscito. Anzi, in certi casi, ha acuito quel senso di “grezzuria” che già ci dava solo il fatto di girare la chiave.
Anche se io, ammetto, dietro quella leggera arroganza, non ci stavo poi male. È uno strano fascino che attrae le menti giovani e inesperte, che hanno voglia di farsi notare in qualche modo.
Con cotanta dimostrazione d’arte, come in tutte le arti che si rispettino, nascono le mostre: agglomerati di colori, accessori assurdi, alcuni inutili di cui pochi conoscono il significato.
Divisi in settori precisi, come scaffali nei magazzini logistici:
Gli olandesi fila 10 ripiano B;
Gli Italian style fila 7 ripiani 5 e 6;
I Woodstock fila 19 ripiano 2.
I Woodstock, i re indiscussi di tutti i raduni! Quelli che hanno trasformato il camion in palcoscenici che il palco di Bowie dell’87 era niente, con casse capaci di sparare decibel da Milano fino a Catanzaro.
Loro, hanno reso un concetto astratto, tangibile: la musica ti entra dentro e non ti abbandona più.
Ed è così anche per chi ha l’impianto stereo di serie, solo che è un po’ meno invadente. Le riflessioni notturne che ci accompagnano verso casa, mentre il volante ci tiene la mano per andare lontano, devono avere un sottofondo musicale come tutti i film che si rispettino, perché noi camionisti di film ce ne facciamo tanti.
Ed eccoci che a suon di note ci destreggiamo tra “la felicità è un cuscino di piume” e “mi scappa la pipì papà“. Festeggiamo per una pappa al pomodoro e quando ci dicono che “it’s never too late” per scaricare. Titolo poco conosciuto, come il concetto.
Ogni momento ha la sua canzone di riferimento e ogni autista la sua playlist. Intima, inarrivabile, custodita perfettamente tra le lamiere di quella cabina.
Anch’io ho la mia, ovviamente. È bipolare come me perché passa dal rock anni ‘70 alle boy band anni ‘90, con qualche accenno di disco music per dare un tocco di colore in più.
Però, analizzandola, ascoltandola e modificandola a seconda delle mie personalità e delle sensazioni, ma mai per moda, ho trovato tre canzoni che se anche non sono le mie preferite, raccontano esattamente la mia esperienza da driver. Credo anche quella di tutti.
Agli esordi la spensieratezza, l’incoscienza di chi non sa cosa lo aspetta ma che è talmente contento ed euforico che accoglie tutto con estremo entusiasmo. Estremo nel senso di altamente rischioso.
Drive degli Incubus è così. Una ballata allegra, leggera che mette di buon umore. Nel ritornello la frase: “Qualsiasi cosa mi porti il domani, io sarò lì a braccia aperte ad accoglierlo” descrive perfettamente la sensazione di chiunque salga in camion per la prima volta.
Quella di essere finalmente riusciti a realizzare un sogno, di governare il desiderio atroce di voler guidare la propria vita e le proprie scelte. L’idea che, abbracciando il nostro desiderato volante, troveremo la felicità.
Talmente incantati dall’idea del viaggiatore errante, dal romanticismo che si cela dietro al viaggio, dalla libidine dettata dal rombo del motore, noi camionisti saliamo in camion con le braccia aperte. E non è una buona idea. Forse il “no no no” finale sarebbe dovuto essere un avvertimento.
Come nel pugilato, impari a chiudere la guardia con il tempo, con l’esperienza.
Esperienza che arriva in Ride like the wind di Christopher Cross.
Adrenalinica come arrivare in tempo allo scarico, tesa come quando intravedi le luci blu in lontananza, ma ancora speranzosa come gli occhi di chi pensa di ancora pensa di potercela fare.
“È notte fonda, il mio corpo è debole, sto correndo senza poter dormire. Devo correre, correre come il vento, per essere libero ancora”. Ora, io lo so che l’immagine del fuggitivo verso il Messico è sempre stata decisamente più accattivante del camionista che deve consegnare i latticini, la benzina o le bobine di carta.
Ma diciamolo. I veri fuggitivi, quelli che corrono contro il tempo siamo noi. I camionisti. Altroché Messico, la vera linea di confine rimane la garitta. L’unica in grado di garantire la vera sensazione di libertà.
Dopo anni da fuggitivo, da ribelle contro il sistema logistico, anni di corse pazze per racimolare chilometri e speranze… la quiete. La rassegnazione e l’accettazione di quello che è e che per quanto lotti, alla fine ciò che prima ami e poi odi è intrinseco nel mestiere in sé. Non puoi farci nulla.
Wake Up in Music dei Marillion ci descrive come quelli che lasciano. Quelli che si fanno scorrere l’asfalto sotto, che dormono guidando.
Siamo quelli che arriviamo prima dell’alba, aspettiamo che la notte ci svegli in parcheggi grigi. Dentro ai nostri box di rumore e di luce, siamo parte del viaggio. Movimento che muove. Una delle descrizioni più belle che io abbia mai sentito e che invidio.
Nelle nostre cabine, cariche di rumori, pensieri, suoni e luci attraversiamo lo spazio e il tempo. Lasciamo piccoli segni del nostro passaggio. Ormai quieti e rassegnati. Consapevoli che non riusciremo a fermarci, incoscienti del fatto che forse, in fin dei conti, non vogliamo farlo.
Siamo il movimento che muove.
Ecco, quando ormai sono alla fine della mia giornata mi lascio trasportare da questo. Da quella consapevolezza che domani tornerò e lascerò ancora. Che domani il lavoro partirà e io lo seguirò perché sono parte di quel movimento.
Perché ho scelto di esserlo e anche quando mi sento bloccata, la musica mi ricorda come mi devo sentire. Un potere immenso per qualcosa che non abbiamo scritto noi. Per noi camionisti, la musica serve per rispecchiare le vite sui nostri parabrezza, nostre e degli altri. Perché noi le attraversiamo, senza mai fermarci davvero. Raccogliendo istanti e caricandoli con noi insieme a volti, parole e voci.
È come se vi accarezzassimo, cogliessimo un momento e poi lo custodissimo in un luogo sicuro, dentro una canzone. E quando vogliamo riviverlo, ci basta fare play. Anche dall’altra parte del mondo, dentro la nostra cassa armonica: la cabina.